Svezia ai Mondiali: Ventura il Ragnarok dell’Italia

Lasciando da parte le considerazioni tecniche, tattiche e fisiche dell’eliminazione e della non qualificazione ai Mondiali 2018 in Russia 60 anni dopo l’ultima assenza, la crisi del movimento calcistico e della nazionale è lo specchio della crisi d’identità dell’Italia tutta come nazione e paese 

Io ho un sogno: vedere l’Italia essere l’Italia, un unico paese, un unico respiro, un’unica identità. Evidentemente, è più un’utopia impossibile da realizzare. Eppure, confidavo nel calcio, in questo meraviglioso sport che trascende la passione e si trasforma nella metafora della vita. 

Abbiamo avuto sempre un rapporto intrinseco con il calcio, noi italiani, capaci di “perdere guerre come se fossero partite di calcio e perdere partite di calcio come se fossero guerre”, come diceva Winston Churchill. Perché siamo fatti così. 

Siamo un “popolo di pecoroni”, come diceva Benito Mussolini. Siamo gente che non lavora, ma fatica. Siamo i primi criticoni, ma anche gli ultimi a mollare. Almeno, lo siamo stati fino ad ora, fino a quando l’autodeterminazione dei popoli non è diventato un diritto esasperato, eccessivamente usurpato. 

La storia è fatta di eroi, ma i veri eroi sono soprattutto coloro i quali vivono vite normali, combattendo ogni giorno per ‘sbarcare il lunario’. E’ proprio questa una caratteristica simbiotica di noi italiani, un qualcosa che abbiamo dimenticato. 

Come abbiamo dimenticato quella meravigliosa metafora del ‘quasi’, come una filosofia semplicistica volta a dare sempre più di noi stessi per tentare di non accontentarsi e continuare a migliorare sempre. Una ricerca della perfezione impossibile da raggiungere, ma anelata per poter ‘tirare avanti’ ed essere un qualcosa di più di semplici atomi nel vasto universo. 

Questo mio sogno sembrava essere diventato realtà quel 9 luglio 2006, in Germania, in quell’Olympianstadion di Berlino. All’epoca avevo 15 anni e, ancora oggi, il ricordo è vivo in me. Così come le emozioni provate nel veder alzare quella coppa da capitan Fabio Cannavaro

Ma, soprattutto, ricordo ancora oggi la sensazione di aver vissuto la storia facendo parte di un qualcosa di molto più importante: una nazione. Mi sono crogiolato in quello che ho vissuto, che mi ha fatto capire tanto. Cose come il sacrificio di tanti uomini per costruire questo paese, che deve essere onorato sempre e comunque, anche andando al di là delle proprie possibilità.

L’eliminazione o, meglio, la non qualificazione dell’Italia di Giampiero Ventura ai Mondiali in Russia, in programma nell’estate del 2018, è una vergogna per la storia di questa nazione, ma anche la semplice conseguenza di questo apatico distacco dall’essere un’unica identità. 

Pochi o, forse, nessuno, ormai si identificano in questa nazione, un paese diviso per motivi egoistici e faziosi. Un’Italia disunita, un paese che ha tifato contro se stesso, equivale a ledere la dignità della propria storia e rinnegare se stessi. 

Non superare la Svezia più scadente degli ultimi 30 anni è un dramma molto più che sportivo, una catastrofe da ‘Giorno del Giudizio’ religioso. E, per citare la mitologia norrena, il Ragnarok dell’Italia è stato proprio il nostro ct, quel Ventura scelto dal presidente della FIGC, Carlo Tavecchio, solo per poi scrivere la peggiore pagina della storia del nostro calcio. 

Era dal Mondiale del 1958 che l’Italia partecipava sempre ai Mondiali e, soprattutto, raggiungeva la finale ogni 12 anni. Sarebbero passati proprio 12 anni da quel Mondiale 2006, che ci ha visto trionfare per la quarta volta sul tetto del mondo, esaltando il prestigio della seconda nazionale più vincente, in questa competizione, nella storia del calcio. 

Con il senno del poi è facile puntare il dito sull’ex tecnico del Torino o sulla federcalcio italiana per averlo scelto. Con il senno del poi è facile parlare di errori tattici e scelte tecniche discutibili. Con il senno del poi siamo tutti bravi e potremmo tutti allenare. D’altronde, siamo l’unico paese che, nonostante sia scevra del sentimento patriottico, ha quasi 70 milioni di allenatori, pronti ad alzare la voce per offendere e deridere il fallimento. 

Sarebbe facile parlare delle lacrime di una leggenda, come Gigi Buffon, e del suo addio. Sarebbe facile elogiare la storia di Daniele De Rossi, Giorgio Chiellini e Andrea Barzagli, altri tre che hanno sempre onorato questa nazionale e non avranno più occasione per difendere i colori della bandiera italiana. 

Ci hanno rubato la possibilità di sognare. Ci hanno rubato il nostro calendario, quello fatto di sogni estivi e città febbricitanti per l’attesa delle partite della nostra nazionale nelle competizioni internazionali. Ci hanno rubato la possibilità di sognare la storia e riscriverla come solo noi sappiamo fare, mostrando forze che vanno al di là della nostra possibilità. Perché, in fondo, l’Italia è sempre stata l’Italia quando serviva. 

Siamo tutti allenatori in Italia, ma è inutile parlare di quello che ‘sarebbe potuto essere’ o ‘sarebbe stato se’. Sarebbe più utile imparare da questo Ragnarok, dopo il quale l’intero mondo calcistico italiano dovrà essere distrutto e quindi rigenerato, come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri.

Quindi, prima di parlare di chi dovrà essere scelto per cancellare questa vergognosa onta nella storia della nazionale, l’Italia dovrà ricostruire l’intero sistema calcistico: prima di tutto, spazio a stadi nuovi e di proprietà; poi, investimento sui settori giovanili; urgente cambiamento dell’assetto federale delle varie leghe e dei campionati, con drastica riduzione del numero di squadre in Serie A e Serie B; infine, basta con gli oriundi. 

Forse, molti storceranno il naso di fronte all’ultimo punto, ma il calcio deve aiutare l’intero paese e l’intero paese deve sentirsi rappresentato dalla propria nazionale. Gli oriundi, spesso, scelgono l’Italia perché impossibilitati a vestire la maglia del proprio paese, ma questo è un male per il nostro calcio. 

La nazionale italiana ha bisogno di gente che sente la maglia, lotterebbe per quel simbolo attaccato sulla maglia e posizionata sul cuore. La posizione dello ‘scudetto’ non è affatto scontata, né tanto meno casuale: rappresenta il cuore, il motivo per il quale si gioca e si combatte in campo, vive in stretta simbiosi con le motivazioni, che si intersecano con la storia e il senso d’appartenenza. 

L’Italia dovrebbe rappresentare il punto massimo, l’ambizione ultima per un qualsiasi giocatore. La nazionale italiana dovrebbe rappresentare uomini, prima che giocatori, pronti a combattere per essa anche in guerra. Gli azzurri dovrebbero essere un esercito a difesa della propria patria e pronta a conquistare grandi vittorie per esaltarne il prestigio e la storia. 

Ripartiamo, dunque, da qui e da quei 75 mila tifosi stoici di San Siro, che non hanno mai mollato, inneggiando, cantando quell’inno che è molto più di una semplice canzone, ma un grido patriottico di unità, come recita una parte dello stesso, mai cantata durante gli eventi sportivi, ma forse la più significativa in assoluto:  

“Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.

Uniamoci, amiamoci;
L’unione e l’amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore. 
Giuriamo far libero 
Il suolo natio:
Uniti, per Dio,
Chi vincer ci può?

Dall’Alpe a Sicilia, 
Dovunque è Legnano; 
Ogn’uom di Ferruccio 
Ha il core e la mano; 
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla; 
Il suon d’ogni squilla 
I Vespri suonò.

Son giunchi che piegano 
Le spade vendute;
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò”. 

Mai come ora è giunto il momento di sovvertire il destino che ci ha visti calpestati e derisi, proprio perché non siamo popolo, solo divisi in tanti, che convivono nella stessa terra. E’ giunta l’ora di unirci e raccoglierci sotto un’unica bandiera. E’ giunta l’ora di sentirci tutti uguali, da nord a sud, da est a ovest, tutti appartenenti a questa nazione, a questo paese: l’Italia. 

Ma basterebbe ricordare anche solo la parte dell’Inno di Mameli, o anche Canto d’Italia o Canto degli italiani, conosciuta e troppo spesso recitata a memoria, senza conoscerne il significato: 

“Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
che schiava di Roma
Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò, sì!”

Un richiamo a stringerci e combattere. Un giuramento volto alla liberazione e alla speranza di unificazione, come fratelli e non estranei, come ai tempi dell’Antica Roma. Quando tutti erano un uno e quando la nazione era unita e pronta a sconfiggere anche invasori imbattibili pur di rimanere liberi e uniti. Una speranza mai indomita, da tenere in vita con il fuoco dell’identità e del senso di appartenenza, un patriottismo più forte di qualsiasi divisione politica. 

Sono orgoglioso di essere italiano, ora più che mai. Sono felice di essere italiano, sempre e comunque. Sogno un’Italia unita, ora più che mai. Io non rinnego la sua storia, combatterò per il suo prestigio e onorerò i suoi sacrifici, ora più che mai, sempre e comunque. Io sono l’Italia… e tu? 

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