Academy Awards 2022: Will Smith premiato miglior attore protagonista per “Una famiglia vincente”

Academy Awards 2022, anche lo sport protagonista nella “Notte degli Oscar” 2022. Will Smith (primo riconoscimento in carriera) viene eletto “Miglior attore protagonista” per la pellicola “Una famiglia vincente”, incentrata sull’ascesa delle sorelle Venus e Serena Williams, e sulla figura di Richard, padre-allenatore delle due leggende del tennis.

Anche lo sport si prende la scena durante la cerimonia di consegna degli “Academy Awards” 2022. La “Notte degli Oscar”, così come è meglio conosciuta in Italia, si è tenuta stanotte nella consueta cornice del Dolby Teathre (Hollywood, Los Angeles).

Quest’anno v’erano ben due pellicole a tema sportivo in concorso, tra cui “È stata la mano di Dio” diretto dal nostro Paolo Sorrentino, candidato nella sezione “Miglior film straniero”.

Will Smith, protagonista di altri celebri lungometraggi (“La ricerca della felicità”, “Alì” e “Man in Black”, per citarne alcune), è stato insignito dell’Oscar al “Miglior attore protagonista” per la sua interpretazione in “Una famiglia vincente”.

Una Famiglia Vincente - King Richard - Film (2021)
“Una famiglia vincente”. Locandina del film con Demi Singleton (Serena Williams), Will Smith (Richard Williams) e Saniyya Sidney (Venus Williams)

Il film, diretto da Reinaldo Marcus Green, narra i primi passi verso il professionismo di Venus e Serena Williams, due leggende del tennis americano e mondiale, e della figura di Richard (Will Smith), padre-allenatore delle due atlete.

Un percorso programmato sin prima della nascita. L’incontro con il tennis che, da casuale, si trasforma per Richard, e il patto con la moglie, Oracene (Aunjanue Ellis): generare un figlio che possa scalare i vertici mondiali e arrivare a vincere Wimbledon.

Di lì, un programma di 78 pagine in cui risaltano i duri allenamenti cui Richard sottopone le ragazze (in casa Williams sono ben cinque). Un metodo per raggiungere il successo, istillare disciplina, ma anche per tenerle lontane dalle insidie del difficile quartiere in cui vivono.

Tutto questo in un film che diviene allegoria di riscatto sociale e integrazione: due afroamericane, dal fondo della scala sociale, si impongono in uno scenario elitario, destinato ai bianchi della “upper class”.

Non vogliamo darvi ulteriori anticipazioni, dunque vi invitiamo a vedere il film, appena ne aveste occasione. Si tratta del primo premio Oscar per Will Smith, attore poliedrico, che riceve finalmente un agognato riconoscimento dopo aver interpretato, già in passato, il coraggio dei padri: celebre, infatti, la sua interpretazione nei panni di Chris Gardner nel film “La ricerca della felicità” (2006) di Gabriele Muccino, per il quale ottenne un’altra nomination agli Oscar nella medesima categoria.

Paolo Sorrentino candidato al “Miglior film straniero” per “È stata la mano di Dio”

Presente anche un pezzo d’Italia nella cerimonia degli Oscar che si è tenuta ieri ad Hollywood. Paolo Sorrentino, che ha già calcato il palco del Dolby Teathre nel 2014 per il film “La grande bellezza”.

Questa volta, Sorrentino ha portato sullo schermo un’anima, spesso ignorata, della sua Napoli. Una Napoli alto-borghese, lontana dalla povertà e dalla delinquenza rionali, sebbene il film offra a questi due opposti l’opportunità di un incontro nell’amicizia tra Fabio e Armando.

È stata la mano di Dio”, titolo che a poco più di un anno dalla morte del “Pibe de Oro” assume un significato commemorativo, ci proietta nella Napoli di quegli anni. È l’estate del 1985, e la città freme in un clima di eccitazione ed incredulità, per le notizie che si rincorrono sui giornali: Diego Armando Maradona, fuoriclasse del Barcellona, è pronto a trasferirsi al Napoli.

Sullo sfondo della cronaca sportiva, si dipana la vicenda di Fabietto Schisa (Filippo Scotti). Giovane e brillante liceale, che sembra destinato a ripercorrere le orme di successo tracciate dal padre (impiegato in banca).

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Toni Servillo (Saverio Schisa) e Filippo Scotti (“Fabietto” Schisa) in un’immagine del film. Da Twitter.

Come ogni ragazzo della sua età, Schisa coltiva e si rifugia, però, in una dimensione privata fatta di sogni e ambizioni personali, più o meno solide. Sorta di alter-ego di un giovane Sorrentino, Fabio sogna di andare a Roma per “Fare il cinema”. La settima arte, dove i confini del reale vengono estesi, raffinati e reinterpretati grazie alla forza creatice dell’ingegno (“La realtà è scadente”, fa dire Sorrentino a Fellini, in un omaggio citazionista).

E questa fuga da una realtà scadente, desolante, diventa per “Fabietto” una necessità. Lo schermo si propone come luogo del sogno, nel quale rifugiarsi e dare forma, attraverso le immagini, ai propri dolori per renderli più sopportabili.

La biografia del protagonista è stata appena segnata dal dtamma della scomparsa di entrambi i genitori. Un trauma che segna la netta separazione con l’immagine dell’infanzia, di chi suole coricarsi ancora a letto, protetto dalle braccia della madre.

A spronarlo, con un atteggiamento che, a questo punto del film, si fa adulto e disilluso, perché il protagonista sarà costretto a fare i conti con la realtà, c’è proprio Capuano: “Il cinema lo vogliono fare tutti: ma tu, hai qualcosa da dire?”. Qualcosa da dire Fabio ce l’ha. Deve solo trovare il linguaggio più appropriato per esprimersi.

“È stata la mano di Dio” diventa dunque storia di iniziazione, di rielaborazione del lutto: “Fabietto”, rimasto orfano, si trova nella condizione di chi deve crescere e imparare a cavarsela facendo ricorso solo alle proprie risorse (“È ora che inizi a farti chiamare Fabio”, lo ammonisce Capuano).

Ad aiutarlo, nel rapido e tortuoso percorso di crescita, alcune figure iniziatiche: il regista Capuano con i suoi atteggiamenti paternalistici, finisce per diventare, nelle vesti di modello ispiratore, una sorta di padre artistico; la baronessa Focale, figura edipica che assume l’onere di iniziare Fabio alla sessualità; infine, l’amico Armando, fratello maggiore (anch’egli segnato da orfanezza), che finirà in carcere e avrà modo di ricordargli quanto la libertà sia, in fin dei conti, il bene più prezioso di cui disponiamo.

Si tratta della seconda incursione di Paolo Sorrentino nel mondo del calcio, dopo che il regista partenopeo esordì con il lungometraggio “La vita in più”, che narra la parabola discendente dei due omonimi Antonio Pisapia: uno, stella dissoluta dello spettacolo, l’altro bandiera della locale squadra di calcio, raro esempio di lealtà sportiva e integrità morale. Un “signore della difesa”, che, sebbene sia stato ispirato per bocca del regista alla tragica figura di Agostino Di Bartolomei, allo scrivente è sempre parso potesse convivere con quella, altrettanto tragica, di Gaetano Scirea.

L'uomo in più... È bastato l'uomo in più... - ilNapolista
Antonio Pisapia (Andrea Renzi) nel film “L’uomo in più”

Sebbene Sorrentino non abbia ottenuto l’Oscar (appannaggio del film “Drive my car” di Ryusuke Hamaguchi) resta una piccola gemma. L’ennesima per un regista che, nel corso della propria carriera, si è accreditato come una delle figure artistiche di maggior rilievo del nostro panorama cinematografico.

“Miglior film” a “I segni del cuore”

Il Premio Oscar al “Miglior film” è andato a “I segni del cuore“, prodotto da Philippe Rousselet, Fabrice Gianfermi e Patrick Wachsberger per la regia di Sian Heder.

Ruby Rossi (Emilia Jones), un’altra ragazzina impegnata nell’età di mezzo, si trova sospesa tra due condizioni di diversità: unica persona udente in una famiglia di sordomuti, esposta agli scherni dei compagni di scuola, che non le perdonano di provenire da una

Il film, interpretato in ALS (American Lenguage of Sign), consacra la figura di Troy Kotsur (Frank Rossi), primo attore sordomuto a vincere un Oscar (e un BATFA) come “Miglior attore non protagonista”.

Nella pellicola, il ruolo padre-figlio viene sovvertito: è la famiglia a non potersi staccare da Ruby, essenziale tramite (è l’unica a sapersi esprimere in lingua dei segni), tra i suoi cari e la piccola comunità di pescatori nella quale si trovano a vivere e lavorare.

Si ripropone, dunque, il tema dell’iniziazione, ma ribaltato: sarà la famiglia a dover recidere il cordone ombelicare che la tiene legata a Ruby. Adolescente introversa ed insicura, Ruby troverà nel maestro Bernardo Villalobos (Eugenio Dabrez) la propria figura iniziatica di riferimento, e nella musica il mezzo per segnalare sè stessa, la propria personalità, le proprie ambizioni, agli altri (prima di tutto alla sua famiglia).

Scena del film “I segni del cuore”, in cui Frank Rossy (Troy Kotsur) appoggia le dita sulla gola di Ruby (Emilia Jones) per avvertire le vibrazioni delle corde vocali

Mezzo espressivo privilegiato, perché coniuga suono, parola e movimento, la musica dimostra in questo film la capacità di sollecitare almeno tre dei nostri cinque sensi (udito, vista e tatto): i genitori di Ruby non sentono le note emesse durante l’esibizione della figlia, ma ne percepiscono la carica emotiva guardando le reazioni del pubblico.

Così come, in quella che è forse la scena più toccante del film, Frank Rossi riesce a comprendere ciò che Ruby sta cantando affidandosi al labiale. E ne percepisce l’intensità attraverso il tatto, avvertendo le vibrazioni delle corde vocali.

La musica, con la sua forza espressiva, diviene dunque strumento in grado di trascendere le barriere della disabilità. Un film che vi farà sicuramente emozionare, qualora decideste di vederlo.

Per ciò che riguarda gli altri premi, la statuetta per la “Miglior regia” è appannaggio di Jane Campion (“Il potere del cane), mentre il premio per la “Miglior attrice protagonista”, va a Jessica Chastain, che insieme ad Andrew Garfield ha ripercorso la storia dei televangelisti Tammy Faye e Jim Bakker, nel film “Gli occhi di Tammy Faye” (Michael Showalter).

Il premio alla “Miglior attrice non protagonista” è andato invece ad Arianna De Bose (Anita), in “West Side Story”, (Steven Spielberg). Un riadattamento dell’omonimo film di Jerome Robbins e Robert Wise uscito nel 1961, a sua volta ispirato ad un musical scritto da Arthur Laurents e Stephen Sondheim, su musiche di Leonard Bernstein.

Detto di “Drive my car”, vincitore nella sezione “Miglior film straniero”, il premio alla miglior sceneggiatura originale va a Kenneth Brannagh, regista di “Belfast”, film che vi consigliamo di vedere se volete approfondire la questione nordirlandese e la storia dei conflitti terroristici, di matrice religiosa, nell’Ulster.

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