Bela Guttmann: l’uomo oltre le maledizioni

La storia del calcio è una gigantesca matrioska, che contiene al suo interno altre storie, che a loro volta sono collegate ad altri racconti, che a volte sono addirittura leggende. Il calcio non è un’entità a sé stante, non si può analizzare e raccontare senza tener conto degli uomini che l’hanno reso lo sport più importante del mondo, e di conseguenze delle loro vite. La storia di Béla Guttmann, proprio come una matrioska, potrebbe contenerne altre cento di persone normali. L’Ungherese fu un rivoluzionario, un pioniere della tattica e della psicologia del calcio, ma anche un uomo con dei grandi problemi, vissuto a cavallo fra le due guerre mondiali, a cavallo fra i due mondi.

L’uomo dei due mondi

Guttmann da giovane, la stella di David sul petto della maglia dell'Hakoah Vienna.

Guttmann da giovane, la stella di David sul petto della maglia dell’Hakoah Vienna.

Guttmann nasce da una famiglia di ballerini ebraici. Il padre e la madre insegnano al figlio l’arte della danza classica che, si dice, il futuro calciatore abbia appreso in maniera eccelsa. Béla tuttavia sceglie un’altra arte, uno sport che nell’Europa centrale cominciava già ad essere praticato a buoni livelli: il calcio. In Ungheria cominciava a nascere una scuola di calciatori, e poi di allenatori, che avrebbero esportato filosofie di calcio in tutto il Mondo, ma Guttmann non è un uomo che fa radici, così comincia a peregrinare per l’Europa, dall’Ungheria all’Austria, dove gioca per un club di sionisti, l’Hakoah Vienna. Lì viene spostato da centravanti, a centromediano metodista, un ruolo che adesso non esiste più ma che era di vitale importanza quando si giocava con il famoso modulo WM, o con la piramide (2-3-5). 

Con Guttmann a centro del campo, come centrocampista “arretrato”, quindi, l’Hakoah diventa il primo club a battere i maestri britannici del West Ham, in casa loro, con un netto 0-5, e visita per la prima volta gli Stati Uniti d’America, per una tourneè. Di questo periodo, Guttmann racconta soprattutto l’imbarazzo del pubblico che guardava una partita di calcio, ma pensava fosse football americano, ed esultava quando la palla veniva lanciato il più in alto possibile, stando in silenzio quando invece si insaccava in rete. Ma rimane così affascinato dagli States dell’era proibizionista, che rimane lì, giocando a calcio, dove non era capito.

Girovaga per alcuni club di New York che adesso non esistono più, e nel frattempo investe in borsa, apre una bottega che vende illegalmente bevande alcoliche, e perde tutto durante il grande crollo di Wall Street del ’29. Dopo 3 anni decide di tornare in Austria, gioca le ultime partite con il suo Hakoah, per poi smettere con il calcio giocato.

La guerra

I venti del Nazismo spirano forte sul vecchio continente, e Guttmann, ebraico, non può vivere facilmente, e pensare solo al calcio. Si sposta dall’Austria all’Olanda, per poi tornare nella sua Ungheria nel 1939, dove vinse con l’Ujpest la Mitropa Cup (antenata della Coppa dei Campioni), per poi dover scappare per più di 6 anni dalle persecuzioni.

Qui la storia di Béla si fa oscura e misteriosa. Alcuni raccontano che sia scappato dai nazisti, buttandosi in corsa da un treno che andava verso un campo di concentramento, altri che sia andato in Brasile, e lì abbia imparato così bene il portoghese, che poi gli servirà negli anni più importanti della sua vita. Lui non ha mai raccontato come sia veramente andata la storia, rispondendo solo che: «Dio mi ha aiutato». La guerra gli porta via il fratello maggiore, ucciso in un campo di sterminio.

La fine della guerra, coincide con il suo ritorno sui campi, e dopo aver allenato una squadra romena, ed aver insegnato calcio in Ungheria, dove allenò la maggior parte dei calciatori che faranno grande l’Ungheria di Puskas (compreso la stessa stella della squadra), viene in Italia, ad insegnare a Padova

I giocatori della Triestina apprendono dal maestro.

Gli anni in Italia sono burrascosi. Il Nord-Italia non fa bene alla salute di Guttmann e della moglie, ma lui procede con il suo lavoro, arriva fino al Milan, dove applica il modulo WM regalando spettacolo con la squadra impreziosita dalle presenze di Schiaffino, Liedholm e Nordahl. Viene però esonerato, da primo in classifica, per i suoi problemi caratteriali. Chiuderà con l’Italia a Vicenza, ma non tornerà più nel nostro paese.

La rivoluzione paulista

Verso la fine del ’56 si sposta in Brasile, toccando un altro continente. Nella sua Ungheria, sta per cominciare la rivoluzione antisovietica e Béla non ha voglia di tornare a respirare la guerra, per lo meno non quella non calcistica

Nel paese del Sole allena il San Paolo, e cerca di trovare nuove soluzioni tattiche per far rendere al meglio una generazione di calciatori che il Brasile non aveva mai visto, e per far superare la tragedia del Maracanazo. Guttmann esporta così il 4-2-4, lo porta ai brasiliani, ne insegna i principi, spiega loro che la palla deve girare sempre veloce, a uno, massimo due tocchi vicino l’area, e che quando la palla non è tua, devi marcare il tuo avversario, mentre quando hai la palla, è lì che comincia la magia.

Di fatto, le basi della Nazionale brasiliana campione del Mondo 1958 in Svezia sono tutte sue. Nel frattempo però, il giramondo, approda in Portogallo, il paese che lo renderà celebre per le sue benedizioni e maledizioni.

Porto e Benfica

La prima squadra che assume Guttmann nella penisola lusitana è il Porto, dove fa suo il titolo di campione nazionale nel 58-59, completando una rimonta incredibile proprio ai danni dei rivali del Benfica, che lui raggiungerà l’anno dopo.

Nella capitale, approda a settembre del 1959, e vince tutto quello che c’era da vincere. Incanta il Mondo con il suo calcio offensivo, porta in auge i giovani del settore giovanile del Benfica, fa esordire Eusebio, il più grande calciatore della storia portoghese, ma soprattutto mette fine alla striscia di vittorie impossibile da battere del Real Madrid di Di Stefano.

La finale di Berna fra Benfica e Barcellona, nel 1961, finisce per 3-2 e consacra i portoghesi nel gota del calcio mondiale, ma è l’anno dopo che va in scena un match incredibile, fra il Benfica e il Real Madrid di Di Stefano e Puskas, e i portoghesi compiono il capolavoro, allo Stadio Olimpico di Amsterdam, chissà, forse sotto gli occhi di un quindicenne Johann Cruijff, che dava i primi calci proprio dietro quello stadio, e prenderà ispirazione da quelle due squadre incredibili per continuare la rivoluzione di Béla.

Nello spogliatoio Guttmann posa con la Coppa dei Campioni, e con i due pupilli, Eusebio e Coluna.

La maledizione

La storia della maledizione, la conosciamo tutti. E’ forse riduttivo riassumere la storia di Guttmann in quell’episodio, che comunque fa capire la personalità incredibile dell’uomo, ancor prima che dell’allenatore. Il fatto che ancora oggi i tifosi del Benfica facciano dei veri e propri pellegrinaggi per chiedere scusa al maestro che li ha portati sul tetto d’Europa per due volte, testimonia la mistica dello sport che lo stesso ungherese ha preferito alla danza. 

La carriera stessa di Guttmann in realtà si è conclusa con quella maledizione, è tornato al Benfica, ma ha deluso, così come ha continuato ad allenare, senza grandi risultati, fino alla fine dei suoi giorni.

In fondo il significato della sua vita, così piena di eventi e di storie da raccontare, è legata fortemente al suo modo di allenare e di giocare a calcio. Non ha mai difeso, ha scelto sempre di attaccare l’avversario anche quando sembrava impossibile finirlo, ma non ha mai ottenuto una vittoria così piena da poter ottenere la gratitudine, che invece gli sarebbe spettata, nonostante le due Coppe dei Campioni, nonostante abbia regalato ad un paese povero, la più grande stella calcistica che abbia mai visto primo di Cristiano Ronaldo.

A 118 anni dalla sua nascita, raccontare la storia di Béla Guttmann, in fondo, è importante per raccontare la storia del Novecento, e dei primi decenni di calcio puro, della piramide e del metodo, della continua lotta fra il calcio difensivo, e quello offensivo, e la storia di grandi uomini che in tempi di guerra pensavano ancora di poter scacciare i peggiori fantasmi della storia, correndo su un prato verde con una palla al piede, e la testa sempre alta a guardare il portiere avversario.

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